Là dove sono le “cose selvagge”

La sottile linea che unisce o separa gli animali umani e non.

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Dove iniziano o finiscono le “cose selvagge”? A differenza dell’isola immaginaria del famoso libro per l’infanzia di Maurice Sendak, non esiste una risposta universale. E’ un concetto mutevole, influenzato dalla cultura, dall’educazione, dall’ambiente, da ciò che guardiamo sugli schermi e dal nostro vissuto.

Alcuni studiosi lo definiscono quasi un paradosso, considerando che noi stessi siamo esseri naturali, ovvero che ci siamo co-evoluti con tutte le altre creature e forze naturali per milioni di anni e che condividiamo, con i primi, le stesse funzioni biologiche. Tuttavia la questione non è banale, perché è proprio lì dove uomini e animali selvatici si sovrappongono che possono verificarsi i conflitti. L’interfaccia uomo-fauna è raramente statica e maggiore è il rischio di incontro o la superficie di contatto, maggiori sono le probabilità che si verifichino interazioni e che queste diventino problematiche. Il cambiamento globale che si sta verificando sulla Terra, di fatto entrata nell’era dell’Antropocene, è influenzato da molti elementi in grado di indurre alterazioni ecosistemiche a livello generale, come il cambiamento climatico, e locali come l’espansione di aree antropizzate a spese degli habitat naturali, o, viceversa, quella della fauna in aree urbane. Questi aspetti, inoltre, possono influenzarsi a vicenda in misura non sempre prevedibile. Purtroppo soluzioni rapide e risolutive non esistono e non tenere conto della complessità socio politica e biologica dietro a questi fenomeni non può fare altro che esasperare gli animi, polarizzare le posizioni e rendere irrisolvibili i conflitti.

Oggi sempre più persone hanno paura della natura, fenomeno noto come biofobia: forse uno dei maggiori ostacoli alle politiche di conservazione della specie animali considerate “più pericolose”.

E’ naturale avere paura di animali come orsi e lupi? Da un punto di vista evolutivo, la paura, per milioni di anni, ha mantenuto in vita i nostri antenati, umani e non. In natura, infatti, un certo grado di paura è innato e quasi sempre altamente adattativo, perché aiuta ad identificare i potenziali rischi e ad affrontarli in maniera strategica. A una minaccia o all’esposizione a uno stimolo spaventoso segue immancabilmente un complesso di risposte neurochimiche ben coreografate, che spingono gli animali a restare o fuggire o a cambiare modalità di vita. Basta pensare un attimo a qualsiasi evento che ci ha spaventato nella vita: accelerazioni del battito cardiaco e scarica, come si dice, di adrenalina. Avere paura, quindi, non è sempre una cattiva cosa. La paura, inoltre, accomuna sia gli esseri umani che gli animali selvatici, ma negli umani è molto più complessa. Gli esseri umani, infatti, hanno una naturale tendenza a rispondere in maniera istintiva, emotiva e affettiva di fronte ad un rischio così come a prevedere, immaginare le conseguenze di una situazione o un evento. Volendo o non volendo siamo essere immaginifici e questo, in termini evolutivi, ci rende unici e a volte anche fragili.

Un binario vuoto della metropolitana di Roma. Uno dei tanti luoghi da cui abbiamo rimosso completamente qualsiasi componente naturale.

Tutti questi fattori possono trasformare le nostre paure in vere fobie, grazie anche al sensazionalismo e alle narrazioni “esasperate” che vengono offerte dai media. Non solo, ma viviamo sempre più in un’epoca caratterizzata da quella che viene definita “amnesia ambientale”, ovvero di disconnessione dalla natura, causata dal nostro modo “urbano” di vivere, che rende la natura sempre più qualcosa di non familiare e diverso. Tuttavia, la rottura del legame fondamentale tra noi e tutti i sistemi viventi potrebbe avere conseguenze disastrose per il benessere del pianeta. La biofobia, infatti, può contribuire a ridurre la volontà delle persone a coesistere con le specie più pericolose come orsi e lupi e a temere di vivere qualsiasi tipo di esperienza in natura. E questo porta anche a conseguenze sulla salute dell’uomo. Molti studi, ad oggi, evidenziamo come trascorrere tempo in natura o comunque relazionarsi con il mondo naturale scateni risposte neuroendocrine che ci fanno stare bene. Al contrario, soprattutto nei giovani, l’alienazione dal mondo naturale contribuisce all’insorgenza di malattie, deficit di sviluppo e comportamentali.

Gli essere umani hanno una naturale tendenza a concentrarsi maggiormente su informazioni negative e questo ingigantisce la portata del rischio nella loro mente.

Come valutiamo un rischio? Gli studiosi hanno dimostrato che gli esseri umani hanno una tendenza ad avere troppa paura di alcune cose o non abbastanza di altre, ovvero di percepire alcuni rischi come più grandi o più piccoli, indipendentemente dalle prove scientifiche. Perchè? Parliamo ancora di emozioni. Le nostre percezioni su qualsiasi cosa rimangono sempre soggettive e in un processo valutativo la componente emotiva è sempre la protagonista, mandando all’aria, a volte, qualsiasi ragionamento. Gli esperti, però, aggiungono che anche l’assenza di emozioni (se fosse possibile) è altrettanto dannosa, perché può portarci a fare scelte poco istintive e non sempre “intelligenti”. E’ sempre una questione di equilibrio. A questo si aggiunge il fatto che per ottenere delle informazioni è necessario entrare in una giungla di dati in parte contraddittori e spesso polarizzati dai social media. Gli studiosi, come David Ropeik, autore di alcuni libri sul rischio e docente all’Università di Harvard, hanno individuato diversi elementi che possono aggiungere irrazionalità nelle nostre decisioni. Vediamone alcuni. Meno un evento è familiare e più è soggetto a miti e leggende e più fa paura. Più un evento ci fa sentire fisicamente vulnerabili, più lo temiamo. Peggiori sono le conseguenze in termini di sofferenza di un rischio, più esso ci terrorizza. Ci fanno più paura, ad esempio, eventi che possono uccidere “improvvisamente” (come un attentato terroristico) rispetto a quelle che causano lo stesso numero di morti in modo cronico, come una malattia o gli incidenti d’auto.

Titoli in prima pagina all’indomani dell’attentato terroristico dell 11 Settembre 2001, una delle notizie che più hanno sconvolto l’immaginario collettivo contemporaneo e influenzato molto le scelte politiche ed individuali degli anni a seguire.

A prescindere dai fatti, qualsiasi rischio sembra più grande quando pensiamo che possa riguardare la nostra persona direttamente e quindi non importa se colpisce una persona su un milione, quella persona siamo noi. Quindi è chiaro che un incidente come un attacco di orso può aprire un vero vaso di pandora di emotività e paura, perché rientra perfettamente nei nostri naturali corti circuiti mentali. E in un attimo diventiamo il protagonista di Grizzly man o di The Revenant. Inoltre, gli esseri umani sono naturalmente vittima di quelle che vengono definite “le bolle mediatiche”, ovvero essi hanno la tendenza a cercare o ascoltare solo informazioni che rafforzano ciò in cui credono o in cui crede il loro gruppo di appartenenza. Quindi, quali sono le conclusioni secondo gli esperti? E’ irrazionale invitare le persone ad assumere un atteggiamento razionale nei confronti di un rischio, perché presuppone che tutti siano capaci di capire i numeri e prendere sempre le decisioni più scientifiche. Dall’altra parte, è altrettanto irrazionale trattare o considerare chi trova poco chiare le cifre e le statistiche in fatto di rischi, come un ignorante. E’ solo un uomo. Quindi è sempre una questione di calarsi non solo nei panni degli altri, ma in pratica dei nostri.

Conoscere e saper fare i conti, come si dice, con i rischi, non è una catastrofe, è un modo per renderli, come di fatto è, parte del nostro vivere quotidiano.

Questo vuol dire che la scienza non è uno strumento utile al pubblico per comprendere la complessa realtà che ci circonda? Prima di tutto è fondamentale capire che restringere il divario di percezione tra le nostre paure e i fatti però non è una cosa facile, né per chi dovrebbe informare, né per chi dovrebbe ascoltare. Significa pensare in modo più attento e razionale, e questo è in contrasto con le parti emotive e istintive che sono naturalmente più potenti. Tuttavia, se entrambi le parti riescono a comprendere le scorciatoie mentali che l’uomo utilizza per prendere decisioni su qualsiasi cosa, è possibile arrivare a considerare i fatti in modo più chiaro, ovvero dare alla nostra parte razionale un po’ più di voce in capitolo, nelle scelte che facciamo. Tutto questo potrebbe farci sentire più centrati e sicuri. Di fronte ad un rischio, infatti, non basta che io mi senta oggettivamente «al sicuro» o che sappia cosa fare razionalmente, ho bisogno anche di tutto il supporto emotivo come molla per agire.

Al crepuscolo, un grosso maschio di orso emerge furtivo dalla foresta centenaria. Un esempio dell’ambiente e delle abitudini tipiche di questo animale così raro ed elusivo.

L’orso se lo conosci, lo eviti così come l’orso cerca di evitare l’uomo. Evitare i rischi è la prima strategia per vivere con consapevolezza in natura.

Ci sono alcune cose fondamentali da chiedersi per formulare un giudizio più informato sulla possibilità che ci accada qualcosa di negativo, a detta degli esperti in presenza di orsi. Innanzitutto, in termini pratici, affinché qualcosa sia un rischio, è necessario che questo evento sia pericoloso, ma anche che ne siamo effettivamente esposti. Se sono in un bosco, in una area di presenza di orso, il rischio oggettivo c’è, essendo un luogo dove vivono orsi liberi, e l’orso può essere un animale pericoloso. Tuttavia, anche se qualcosa è pericoloso, bisogna sapere altre cose: quanto è pericoloso? Per chi è pericoloso? A che livello? In che modo? Quanto è pericolosa l’esposizione? Per quale periodo di tempo? A che età? Per quali vie potrei essere esposto? Avendo tutte queste risposte, è possibile ridurre il rischio che mi succede qualcosa di brutto? Ovvero posso acquisire un controllo sulla mia situazione? Proviamo a valutare il rischio di essere attaccato da un orso. La premessa è che anche gli orsi, di base, temono l’uomo o comunque lo evitano. Diversi studi condotti utilizzando radiocollari dimostrano che questi animali, in Appennino, come nel resto d’Europa o in Nord America, preferiscono vivere in aeree il più lontano possibile da grossi insediamenti umani, e, soprattutto in aree frequentate da persone, di giorno scelgono di rifugiarsi nelle zone meno accessibili, . Gli orsi evitano l’uomo conducendo una vita più notturna e quando si verifica un incontro ravvicinato con un essere umano, nella quasi totalità dei casi, essi fuggono dall’area dell’incontro e rimangono nascosti per giorni. In Scandinavia, agli inizi degli anni 2000, alcuni ricercatori hanno iniziato uno studio sperimentale per dimostrare con dati oggettivi che gli orsi bruni preferiscono evitare un confronto diretto con l’uomo. Quando si dice “sacrificarsi per la scienza” per migliorare la coesistenza non è sempre solo un motto! Ricercatori, dottorandi, tesisti e volontari si sono avvicinati a distanze fino a 50 metri da trenta orsi dotati di radiocollare GPS per valutare la loro reazione alla presenza delle persone, collezionando 169 incontri ravvicinati. Gli orsi sono risultati visibili soltanto nel 15% dei casi non manifestando nessun comportamento aggressivo, mentre nell’80% dei casi gli esemplari si sono allontanati anche prima di essere avvistati. Lo studio dimostra che gli orsi scandinavi non sono normalmente aggressivi durante gli incontri con gli esseri umani.

Quando arrivai sul crinale, dopo un dislivello di 600 metri, l’unico pensiero fu di sedermi e prendere fiato. La vista era annebbiata, e un vento lento ma costante mi rinfrescava il viso. Da seduta, cominciai ad oscillare a destra e a sinistra con il corpo per studiare il posto in cui ero, quando a pochi metri da me, qualcosa di più che un’ombra tra le foglie seguiva i miei movimenti. Il tempo di mettere a fuoco: un orso con il collare era seduto e mi osservava. Il mio primo pensiero, che è sempre il più sciocco «E’ l’orso che ho catturato poche settimane fa, si vendicherà?». In pratica mi calai subito in uno dei personaggi del film “L’Orca Assassina”. Secondo pensiero, più razionale, ed un lungo respiro «Calma, distrailo, non spaventarlo, parla amichevolmente e soprattutto non fuggire». E così feci, non ricordo esattamente le parole, ma qualcosa dissi e lanciai piano uno o due sassolini, credo. E funzionò, l’orso si alzò su una roccia per osservarmi meglio, mentre io mi facevo sempre più piccola, e poi se ne andò con molta calma e soprattutto indifferenza. La sensazione fu di non essere stata più rilevante di quel sassolino che avevo lanciato. Paura, fascino, emozione. Ricordo soltanto che in un tempo che mi sembrò ore, mi portai fuori vista, e mi allontanai rapidamente.

Elisabetta

I dati relativi ai casi di attacchi di orsi bruni sono di circa 10 attacchi all’anno in tutta Europa e in media di non più di un evento all’anno che abbia portato al decesso della persona coinvolta. Quindi è sì un evento pericoloso, ma raro. Nella quasi totalità dei casi si è trattato di orsi che si sentivano minacciati dalle persone. Quindi l’orso bruno, rispetto ad altri animali come i felini, non vede l’uomo come una preda e attacca principalmente se sente di doversi difendere. Esistono, infatti, delle situazioni che possono mettere le persone a maggiore rischio. La quasi totalità degli incidenti si è verificata nel caso di incontri con femmine con piccoli al seguito, che hanno uno spiccato senso protettivo nei confronti dei cuccioli; di incontri inaspettati a breve distanza con un orso, in presenza di cani liberi (che hanno inseguito gli orsi e poi tornati o difesi dal proprietario ) o nel caso di orsi attratti e condizionati da cibi di origine umana, più facilmente avvicinabili e meno schivi. Ci sono poi delle situazioni che devono essere assolutamente evitate, come avvicinarsi, appunto, ad una femmina con piccoli, ad un orso che si alimenta, soprattutto se parliamo di una carcassa, oppure disturbare un individuo in tana o avvicinarsi ad un animale ferito. Come si traduce tutto questo? Non devo più andare in montagna? No, è come se decidessimo di non attraversare più una strada perché c’è il rischio di essere investiti. Le informazioni di cui sopra ci suggeriscono una serie di comportamenti che potremmo adottare per evitare un incontro ravvicinato. Se poi mi trovo di fronte ad un animale, è fondamentale comportarsi in modo che l’orso non si senta minacciato, ovvero non provocarlo, non spaventarlo, inviargli dei segnali calmanti e se possibile distrarlo e soprattutto lasciargli una via di fuga. Gli attacchi sono eventi assai rari e improbabili, quindi la difesa o eventuali comportamenti aggressivi da parte dell’uomo sono da evitare. Lottare è sempre solo l’ultimo stadio.

La prima regola, evita di sorprendere un orso a distanza ravvicinata

1) Sii vigile (es. non camminare con le cuffie);
2) Rimani su sentieri prestabiliti ed evita i fuori sentiero;
2) Cammina se possibile in gruppo;
3) Annunciati lungo i sentieri (es. non camminare silenziosamente);
4) Se non hai visibilità in un tratto di sentiero e sei in bici o stai correndo, rallenta e preferibilmente percorri quel tratto a piedi;
5) Se hai un cane e non puoi lasciarlo a casa, portalo sempre al guinzaglio.

Se incontri un orso che ti vede a distanza

1) Stai calmo e valuta la situazione;
2) Rimani in gruppo, se non sei da solo;
2) Indietreggia lentamente, parla a bassa voce e non guardarlo: uno sguardo diretto è percepito come una minaccia;
3) Non correre: un orso è più veloce di te e potresti indurlo a inseguirti;
4) Non avvicinarti o inseguire l’orso;
5) Se il tuo veicolo è nelle vicinanze, sali il più rapidamente possibile;
6) Se ci sono cuccioli nell’area, allontanati da loro;
7) Fai il possibile per lasciare all’orso una via di fuga.

Se incontri un orso che si avvicina o ti insegue

1) Stai fermo e calmo;
2) Identificati e manda segnali rassicuranti (es. parla con voce calma e gesticola piano)
3) Distogli lo sguardo: uno sguardo diretto è percepito come una minaccia;
4) Metti lentamente lo zaino sulle spalle, se lo avevi a terra;
5) Distrailo in un’altra direzione, lanciando piano piccole oggetti se li hai a disposizione (es. sassolini);
6) Se si ferma, allontanati lentamente.

Se un orso attacca

Fingersi morti può essere un’opzione: lasciatevi cadere a terra a faccia in giù, intrecciate le dita sulla nuca e allargate le gambe per rendere più difficile all’orso girarti. Ricorda che reagire potrebbe aumentare l’intensità dell’attacco.

E se mi trovo in un centro abitato? Valgono le stesse regole, nonché avvisare le autorità competenti in termini di sicurezza pubblica. E se parliamo dell’orso marsicano? Nessuno attacco e ferimento è stato documentato con certezza in Appennino. Gli studiosi, inoltre, confermano che è geneticamente meno aggressivo come conseguenza della propria storia evolutiva. Ma anche questo ha delle conseguenze, soprattutto sul comportamento delle persone. In Appennino e in particolare in aree come il PNALM, una delle criticità più attuali, è dovuta ad una estrema biofilia e confidenza nei confronti dell’orso, ovvero le persone tendono a inseguire, accerchiare questi animali nei centri abitati, anche solo per scattare una foto o addirittura un selfie, anche a distanza di pochi metri, fiduciosi di avere di fronte un orso “buono”. In effetti, gli stessi ricercatori e il personale tecnico del PNALM potrebbero raccontare di decine e decine di incontri a distanza ravvicinata che si sono conclusi con l’allontanamento spontaneo, e in molti casi, l’immediata fuga dell’animale. Tuttavia, esiste un turismo “urbano” mirato alla ricerca di animali selvatici tra i vicoli abitati, compresi i cervi. In alcune occasioni sono stati osservati comportamenti scorretti come lasciare cibo per “sfamare” gli animali o per attirarli e poterli rivedere.

Ritratto ravvicinato di una volpe confidente, in cerca di cibo. La presenza di animali che frequentano aree periurbane in Appennino può rappresentare una forte attrattiva per appassionati, curiosi e fotografi

È da ricordare che perdere la diffidenza naturale nei confronti di animali selvatici come l’orso e non solo è altrettanto irrazionale che averne troppa: un’altra conseguenza di una “amnesia ambientale” che può portare all’estremo opposto, ovvero considerare qualsiasi animale addomesticabile. Gli animali selvatici sono geneticamente adattati ad avere una aggressività reattiva elevata, possono comportarsi “bene”, ma sono imprevedibili. Un animale selvatico potrebbe diventare “mansueto”, ad esempio in cattività, ma non sarà mai in grado di capire a pieno il nostro linguaggio, cosa che possono fare i cani, ma come risultato di un processo di selezione artificiale da parte dell’uomo iniziato oltre 10,000 anni fa. Un esempio vale mille parole. Raymond Coppinger era un biologo ricercatore che ha dedicato una vita allo studio del comportamento dei cani e non solo. Non è una presenza sconosciuta in Abruzzo, perché è proprio qui che è venuto a studiare i cani da guardiania. Nel 2000 Erich Klinghammer, suo amico e direttore del Wolf Park, in Indiana, lo invitò a entrare nella gabbia di alcuni lupi che vivevano in cattività da quando avevano dieci giorni ed erano cresciuti senza genitori, senza vedere il mondo esterno e in contatto con gli esseri umani. Erano abituati a stare al guinzaglio ed erano molto mansueti. L’amico, alla richiesta di Raymond su come comportarsi, gli disse di trattali come se fossero cani. Mai suggerimento fu più sbagliato. Quando Coppinger diede un colpetto affettuoso sul fianco a una delle femmine, Cassi, questo era il nome della lupa, sfoderò i denti e lo attaccò, mentre gli altri lupi si apprestarono a fare lo stesso. Per fortuna, Coppinger riuscì a mettersi in salvo. Chi di noi non da pacche affettuose ai cani? II pensiero di poter trattare un lupo ammansito, che aveva vissuto con gli uomini sin da piccolo, come un cane, non lo sfiorò più. Per quanto mansueto, un lupo non si farà mai addomesticare. E lo stesso discorso vale ovviamente per un orso. Quali sono le conclusioni? Non dobbiamo temere di essere attaccati da un orso in Appennino, tuttavia è bene ricordarsi che non sfidiamo la loro eccessiva tolleranza e mansuetudine. Ne vale la salvaguardia di questo maestoso animale.

Abbiamo bisogno di narrazioni più accurate, equilibrate e incentrate sulle soluzioni, in cui le persone possano anche impegnarsi, magari cambiando i paradigmi.

Sebbene gli attacchi all’uomo siano rari, suscitano reazioni letali nei confronti degli animali considerati responsabili dell’attacco, con diminuzione della tolleranza dell’opinione pubblica nei confronti di queste specie e ricadute negative in termini di conservazione. In caso di un incidente, sia gli esseri umani sia i grandi carnivori perdono, ed è per questo motivo che ridurre questi casi rimane una priorità per migliorare la coesistenza, assicurare la pubblica sicurezza e la conservazione delle popolazioni dei grandi carnivori nel lungo termine. Tuttavia, nel caso di specie come l’orso, anche se protette, non è facile cercare di stabilire o ristabilire, in caso di un incidente, la legittimità delle azioni di conservazione nei loro confronti. Come riportato nelle linee guida della Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), parliamo di conflitti radicati o identitari, in cui, gli animali sono visti come una minaccia alla propria identità. In questo scenario c’è poco spazio al dialogo e alla collaborazione e prevalgono atteggiamenti esasperati, ostilità, scetticismo e sarcasmo tra le parti.

La rimozione degli animali, ovvero la messa in cattività o addirittura l’uccisione, è vista, soprattutto da parte di un pubblico generico, come la soluzione gestionale a molti problemi. Ma lo è davvero? Può essere risolutiva nel caso di un individuo isolato che manifesti, ad esempio, un comportamento cronico di aggressività verso l’uomo, anche se non provocato. Ma se parliamo di orsi che attaccano per difendersi perché ci vedono come un pericolo, è possibile pensare di risolverlo uccidendo via via ogni animale che agisce di istinto come parte di un suo repertorio naturale? Tolto un animale, verrà lasciato un posto vacante per un altro animale. Ma forse, in questo caso, non è sempre l’orso ad essere problematico, ma il contesto. Gli studiosi confermano, inoltre, che questa pratica può comportare più rischi che benefici.

Un angolo di faggeta vetusta appenninica, una delle aree a maggiore naturalità che ancora sopravvivono nel nostro Paese.

Supponiamo di rimuovere un maschio adulto di orso. Se questo individuo è dominante, il suo posto verrà preso da un altro orso maschio che per prima cosa ucciderà tutti i piccoli non suoi. Nel caso dei lupi, la destrutturazione del branco, può disorientare gli animali sopravvissuti, portando anche maggiori danni alle attività economiche. Se usciamo dalla sfera biologica, una volta che si avvia questo processo, quali limiti ci poniamo? Una soluzione potrebbe pensare di rimuovere tutta la popolazione così da eliminare anche i rischi di cui sopra. In realtà gli effetti collaterali potrebbero essere maggiori per l’ambiente e anche per noi. Togliere da un territorio il lupo, vuol dire consentire una crescita indiscriminata di cervi, ad esempio, con un rischio di aumento di danni alle attività agricole e alla biodiversità più in generale. Non è forse meglio allora un approccio non letale e preventivo? Curare il contesto, ovvero, per prevenire situazioni rischiose o problematiche?

Tuttavia, per trovare soluzioni ai conflitti è necessario accettare che i rischi non possono essere cancellati, ma che possano essere ridotti e tollerati.

Come riportato nelle linee guida IUCN, la coesistenza tra l’uomo e la fauna può essere raggiunta soltanto attraverso una collaborazione adeguata e informata tra diversi attori per individuare una strategia accettabile e condivisibile, in base a quattro principi fondamentali:

– non nuocere,
– comprendere i problemi e il contesto,
– lavorare insieme integrando aspetti scientifici, sociali e politici,
– consentire percorsi che siano sostenibili per le persone e la fauna.

Per tutto questo, ci vuole, forse, un cambio di paradigma o meglio una nuova visione e porsi una domanda: E se le difficoltà che s’incontrano, del tutto legittime, fossero rese ancora più insuperabili da una visione troppo antropocentrica e dominante nei confronti della natura? È possibile vedere i grandi carnivori non come creature scomode o addirittura temibili e “assetate di sangue”, ma come esseri viventi che al pari nostro cercano di sopravvivere nel nostro stesso ambiente? È possibile avvicinarsi ad una visione più mutualistica del nostro rapporto con la natura, dove ogni specie è legata all’altra e all’ecosistema in cui vive? Una visione, in fondo, non così nuova, perché appartiene a molte altre culture umane.

I conflitti producono cambiamenti. Se affrontati correttamente, i conflitti tra uomo e fauna ci costringono a esaminare le tensioni e le disuguaglianze sottostanti e a lavorare insieme per migliorare il benessere, lo sviluppo e la conservazione della natura.

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