Le voci dell’orso
L’impronta di un territorio
Vallone dell’Orso, Coppo dell’Orso, Valico dell’Orso, Passaggio dell’Orso; Sorgente dell’Orso, Piè d’Orso, Valle Orsara…
Bisogna perdersi in un passato remoto per rintracciare gli uomini che hanno così nominato molti angoli d’Appennino. La toponomastica è l’impronta che un territorio segna nell’animo delle genti che lo abitano. E l’impronta che l’orso ha marcato in questa terra è nitida e profonda.
L’orso conserva tutto ciò che noi abbiamo ereditato dal passato.
È con questa semplice espressione che una cittadina sintetizza migliaia di anni di coesistenza tra uomini e orsi nella loro casa comune. Popolazioni umane che nel tempo hanno trovato l’equilibrio con una natura con la quale sono state e sono spesso in conflitto, ma con la quale hanno anche stabilito un rapporto di profonda conoscenza e di tolleranza e quindi di abitudine reciproca. L’Appennino è una terra dura e selvaggia, in cui l’uomo ha tentato di farsi strada con molte difficoltà, mettendo spesso le proprie necessità al sopra di quelle degli animali. Ma con il suo lavoro l’ha anche plasmata, arricchendola di praterie e di frutteti, dove molti animali hanno trovato cibo e spazio. Qui orsi, lupi, camosci si sono salvati dall’estinzione a cui sono andati incontro in quasi tutto il continente europeo. Qui sono nati i principi che hanno guidato la conservazione della natura in Italia. Nel corso del tempo, quello che era un patrimonio locale di conoscenze, ha pian piano valicato i suoi confini. L’orso, la gente comune, l’Ente Parco, gli studiosi, si sono aperti al mondo e il mondo ha potuto guardare e conoscere questa realtà. Dunque, delle voci di quegli uomini che in quel passato remoto hanno dato i nomi alle montagne, non rimane sono l’eco, ma un messaggio che risuona ancora oggi. In altri modi e in altre forme rispetto al passato, la coesistenza continua.

Un’immagine storica dei Monti della Camosciara, cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise sin dalla sua istituzione.
Come allora le persone vivono con gli orsi. Coabitano il suo stesso territorio. Si relazionano con lui quotidianamente, per lavoro, per passione o anche solo per caso. Chi vive in questa terra ha l’opportunità di osservare la natura senza filtri e senza la mediazione di altri. Ma questa opportunità non è solo un privilegio. Comporta anche delle sfide. Incontrare i cervi davanti a scuola, o lupi e orsi nelle strade del proprio paese, vivere a così stretto contatto, può essere straordinario da molti punti di vista, ma spalanca un universo di difficoltà: una sfera complessa di percezioni e valori da gestire. L’Appennino offre esempi passati e presenti di naturale coesistenza con i grandi carnivori che dovrebbero essere preservati, condivisi e compresi. È soprattutto a chi vive in questa terra che tocca il compito di raccontare questa storia unica e di non perderne la strada. Solo con il loro esempio altre persone potranno capire veramente in cosa consiste la parola coesistenza.
I protagonisti dell’Appennino sono molti e ciascuno è stato ed è portatore di percezioni, valori ed esperienze diverse e queste sono alcune delle loro voci.
Sin dall’inizio l’allevatore e l’orso hanno sempre condiviso i pascoli, hanno sempre condiviso i boschi, hanno sempre condiviso tutto.
Con queste parole un allevatore descrive il doppio filo che lega l’orso a chi lavora in montagna. Ma cosa significa esattamente condividere tutto? Non si tratta solo di condividere lo spazio di un bosco, o di un pascolo, o di un frutteto, ma di avere in comune le regole, le difficoltà e i ritmi che sono alla base delle reciproche esistenze. L’annata favorevole per la frutta, o per il pascolo, ha lo stesso buon sapore tanto per gli uomini quanto per gli orsi: significa avere più risorse per vivere, per crescere i propri figli. Se l’orso è il simbolo della natura selvaggia dell’appennino, allora “la pecora e la mela” ne sono la sua controparte. Allevatori e agricoltori hanno contribuito a creare e mantenere un paesaggio che caratterizza questa zona del mondo e che ne sostiene l’alta biodiversità, orso compreso. L’orso, da parte sua, è la testimonianza vivente di un ecosistema ancora integro e funzionante. Oggi all’interno del Parco Nazionale d’Abruzzo e sua Area Contigua ci sono 944 agricoltori e 1682 allevatori che si sono relazionati con l’Ente Parco per aver subito, ma anche prevenuto, danni da fauna selvatica, con recinzioni elettriche, strutture di protezione e ricovero e con cani da guardiania. La storia di questi protagonisti-antagonisti sembra dunque non essere ancora finita con l’estinzione dell’uno o dell’altro, come è successo in tanti altri luoghi del mondo. Continua, e merita di essere raccontata.
Le montagne dell’orso appenninico sono anche abitate da sempre dall’uomo. Con buone pratiche ed empatia le attività agricole e di allevamento possono coesistere con la salvaguardia della natura.
Ripercorrere la storia delle guardie del Parco significa anche ripercorrere una lunga parte della storia d’Italia. Per iniziare questo racconto bisogna infatti tornare indietro di un secolo e soffermarsi su alcune delle più importanti vicende che tanto hanno cambiato l’Italia, quanto hanno cambiato il Parco e il mestiere del Guardiaparco. Quando il Parco è nato, nel 1923, Erminio Sipari, primo Presidente, immaginava di costruire un corpo di 200 guardie, tale era il numero che a suo avviso era necessario per adempiere fino in fondo alla sorveglianza del territorio. Le sue ambizioni hanno dovuto scontrarsi con la mancanza di fondi e le prime guardie a prendere servizio furono solo 14. Nel 1933, quando il regime fascista abolisce ogni forma di autonomia, l’Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo viene soppresso e il corpo di sorveglianza passa sotto il controllo dell’allora Milizia Forestale. Solo nel 1951, dopo un’aspra battaglia, fu possibile ricostituirlo e tornare a controllare il territorio efficacemente. Le nuove guardie assunte nel 1954 incarnano perfettamente lo spirito del tempo. Oltre ad aver vissuto l’esperienza del fascismo e della guerra, si trovano a cavallo tra due mondi. L’uno, in decadimento, rappresentato dall’economia tradizionale di montagna, dura e povera. L’altro, in procinto di arrivare, quello del boom economico. Nel primo di questi due mondi c’erano l’agricoltura e l’allevamento di sussistenza, le transumanze in Puglia, la mancanza di educazione, la miseria e l’emigrazione come unica forma di affrancamento. Molte guardie da giovanissime avevano avuto esperienza di lavoro e di vita molto dure. Diventare Guardiaparco per loro era anche motivo di riscatto sociale.

Un importante colpo contro il bracconaggio messo a segno dalle Guardie del Servizio Sorveglianza del Parco nella metà degli anni ’90.
A partire dagli anni 60, come tutta l’Italia, anche il Parco vive una fase di grande progresso. Si rinnova, amplia le proprie competenze, intensifica le collaborazioni per ricerche scientifiche. I Guardiaparco iniziano a sperimentare da protagonisti quello che diventerà uno dei principi cardine della buona gestione di un’area protetta: la presenza di personale formato e la collaborazione tra sorveglianza e ricerca. Del resto, anche se mancano di formazione scientifica, i guardiaparco sono la più preziosa risorsa di cui un ricercatore può disporre: sono ottimi camminatori e sono custodi delle memorie di chi li ha preceduti, di cui hanno ripercorso i passi fino a conoscere perfettamente le montagne e scovare ripari, tane, nidi e passaggi di animali.
Sono questi anche gli anni del boom turistico. E sono proprio i Guardiaparco il primo contatto tra il mondo cittadino e il mondo naturale. Le guardie di oggi svolgono il proprio compito in un mondo molto più complesso. Il corpo di sorveglianza di conseguenza è mutato in una struttura multiforme, più capace di far fronte alle moderne complessità, composta da 35 guardie organizzate in reparti dislocati su tutto il territorio, da 1 ufficio di coordinamento; 1 responsabile; 5 capi-ambito e 1 referente per i rapporti con il Servizio Scientifico. La figura romantica del Guardiaparco-Montanaro ha dovuto cedere un po’ il passo a quella, forse meno poetica ma oggi indispensabile, di un Guardiaparco più preparato dal punto di vista normativo, giudiziario e scientifico. Nonostante i cambiamenti però le Guardie continuano ad essere testimoni, custodi e interpreti di una storia lunga più di cento anni, durante la quale un mondo in bianco e nero si è pian piano arricchito di colori e di sfumature. Un mondo sicuramente più difficile da interpretare, ma ricco di sfide da compiere sul sentiero della protezione della natura.
Testimoni e custodi del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise raccontano la loro storia.
Tutti quanti eravamo immersi in questa ventata culturale che stava pervadendo il paese e di cui il Parco Nazionale d’Abruzzo era la nave rompighiaccio. Cioè, noi eravamo il punto di riferimento culturale di mezza Europa in quegli anni…
Non c’è nulla di meglio delle metafore per ridurre qualcosa di complesso alla sua essenza. Giorgio Boscagli, biologo-faunista, utilizzò questa, particolarmente efficace per descrivere il lavoro di ricerca e conservazione che si svolgeva negli anni 80 nella prima area protetta d’Appennino. Nave rompighiaccio. Questa metafora così altisonante, a ben vedere, può davvero essere utilizzata per descrivere ciò che ha rappresentato la ricerca per il Parco (e il Parco per la ricerca) già ben prima degli anni 80.La ricerca scientifica per come la intendiamo oggi non esisteva un secolo fa quando il Parco d’Abruzzo è stato istituito. Tuttavia, il suo primo presidente, già nelle fasi embrionali della sua nascita vi diede enorme enfasi, appellandosi ai più illustri scienziati dell’epoca affinché lo appoggiassero nella sua difficile impresa. Nella sua famosa Relazione egli auspica qualcosa che oggi a noi suona scontata, ma che all’epoca non lo era affatto: far diventare l’area protetta un laboratorio scientifico, un centro di studio per tutto l’Appennino meridionale. Non solo, è proprio tra gli alleati scelti dal Primo Presidente che germoglia quello che oggi è il caposaldo della ricerca e della gestione ambientale: la visione ecosistemica.
Ma, se in molti era vivo il desiderio di proteggere le specie caratteristiche della fauna marsicana (…) nessuno aveva mai avuto la visione di un armonico complesso di provvidenze, le quali avessero salvato, in uno, e la fauna tutta e la flora, e le bellezze e i monumenti naturali e il paesaggio di quell’angolo ancor quasi vergine.
Questa visione completa l’ebbe per primo il Prof. Pirotta, il chiarissimo Direttore dell’Istituto Botanico annesso alla R. Università di Roma. Il sodalizio tra area protetta e ricerca da allora non si è mai più incrinato. Si è anzi arricchito con l’evolversi delle conoscenze. Nel 1972 nasce il Centro Studi Ecologici Appenninici, la famosa “Nave rompighiaccio”, oggi Servizio Scientifico. Un laboratorio con una visione a 360 gradi sulle problematiche ambientali. Dagli anni ’60 ci si lascia definitivamente alle spalle l’era in cui le ricerche in campo faunistico erano per lo più limitate agli insetti e agli uccelli. Già lo stesso Sipari, ma soprattutto i dirigenti che gli sono seguiti, hanno sollecitato con forza indagini sulla grande fauna, orso in primis. Un’attenzione che poi esploderà negli anni ‘70. In seno al Centro Studi nascono i gruppi di lavoro “Lupo Italia” (1974), “Camoscio Italia” (1978) e il “Gruppo Orso Italia” (1983). Punti di riferimento studiosi e gestori di tutta Europa. Lunga e fertile è stata la strada delle conoscenze sull’Orso. Iniziata con le indagini della primissima Commissione Scientifica del Parco, composta da illustri zoologi come Ghigi e Altobello (1923), fino a culminare con le avanzate ricerche dell’Università di Roma La Sapienza nei primi anni 2000, che ci hanno consegnato un quadro completo dell’ecologia di questa specie. Oggi la ricerca sull’orso, così come su tutti i grandi carnivori, è quasi completamente incentrata sulla sperimentazione di buone pratiche da esportare altrove nel mondo della conservazione. Tecnici e studiosi devono affrontare una delle più grandi sfide di oggi: la coesistenza tra uomini e animali. Il loro difficile compito consiste nell’imparare la lingua degli animali, e, proprio come degli interpreti, decifrare i loro bisogni e mediarli con le necessità della società umana.

Da sempre, nel PNALM, alle attività di conservazione si affiancano quelle di educazione e comunicazione.
Nel DNA della scienza della Biologia della Conservazione non c’è solo la comprensione del funzionamento degli ecosistemi o le conoscenze sull’ecologia delle specie animali e vegetali, non ci sono solo le strategie di contrasto all’inquinamento o alla degradazione degli habitat; c’è anche, e forse soprattutto, l’essere umano come strumento di cambiamento. E l’essere umano non è altro che ciascuno di noi. In questo senso la Biologia della Conservazione è una” scienza culturale”, perché mette al centro l’uomo e le sue relazioni con l’ambiente, e non a caso in Italia ha mosso i suoi primi passi nei portentosi movimenti ambientalisti degli anni ’70-’80. L’Appennino centrale, non solo non è stato immune da questa ventata, è stato anzi protagonista. In Appennino si sono compiute aspre battaglie contro la speculazione edilizia, che tanto avrebbe mutato il volto selvaggio di queste montagne. Insieme, dirigenti di aree protette, scienziati, tecnici, giornalisti e soprattutto la società civile, si sono mobilitati con determinazione.
Questo è quanto scriveva nel 1992 il cronista d’inchiesta, Antonio Cederna, appassionato ambientalista, dopo una battaglia durata 20 anni:
In una delle sue zone più incontaminate, tra faggi e radure, regno dell’orso marsicano, sono state sbriciolate dalle ruspe una trentina di ville abusive: al raro spettacolo in località Cicerana a 1500 metri sul mare hanno assistito in diretta centinaia di persone: naturalisti venuti da tutta Italia, scolaresche, cittadini, amministratori comunali, mentre una banda di alpini suonava l’inno di Mameli. E stata una festa popolare, che dimostra come ormai tutti abbiano capito che quello che un tempo veniva spacciata per valorizzazione turistica altro non è che speculazione selvaggia.
Oggi il mondo ambientalista è certamente più frammentato rispetto ad allora, ma è molto forte l’eredità di quella fase rivoluzionaria. L’idea che per ottenere una tutela ambientale efficace sia necessario informare, educare e soprattutto invitare la società civile alla partecipazione, si è profondamente radicata. Questa conquista, da un lato è stata integrata nelle moderne politiche di gestione delle aree protette, dall’altro ha favorito il sorgere spontaneo di molte associazioni impegnate autonomamente nella difesa della Natura. Anche in questo caso l’Appennino centrale è stato la “nave rompighiaccio”. Il Museo del Parco d’Abruzzo è stato il primo in un’area protetta italiana. I primi centri visita d’Italia sono anch’essi nati qui. Centinaia di “volontari per la natura” per anni di qui sono passati, riportando a casa esperienze straordinarie e nuove consapevolezze, grazie alla sperimentazione di programmi di interpretazione ambientale mirati a stimolare un contatto diretto con la natura, valorizzando tutti gli aspetti da quelli scientifici a quelli sensoriali e estetici. Da oltre 30 anni il Parco ha un ufficio di comunicazione e un servizio di educazione e didattica che investono risorse ed energie per favorire lo sviluppo di processi partecipativi con diversi portatori di interessi.
Guardaparco, ricercatori, biologi e tecnici intenti a monitorare la presenza dell’orso in Appennino.
Ancora più entusiasmanti sono le realtà associative nate spontaneamente dalla società civile. Alcune di esse hanno scelto proprio l’orso bruno marsicano come loro vessillo. Unioni di battaglieri per la conservazione di questa specie, emblema di una natura integra e selvaggia, ma così minacciata di estinzione. Spesso impegnati in azioni concrete, credono profondamente nell’attivismo e lavorano per una presa di coscienza collettiva. Rewilding Apennines, Salviamo l’Orso e altre piccole-grandi realtà,in sinergia con le Istituzioni, stanno costruendo nuovi modelli di convivenza, in cui le comunità locali diventano parte attiva.
Modelli che aspirano a introdurre un nuovo paradigma, secondo il quale la tutela dell’Orso non sia ridotta a una serie di norme imposte “dall’alto”, ma nasca invece da un’assunzione di responsabilità e dalla volontà di collaborare per obiettivi comuni, che enfatizzano i vantaggi del convivere con l’orso. Seguendo l’esempio nord-americano delle bear smart communities, l’Appennino centrale continua dunque a essere protagonista di iniziative del tutto innovative in Europa. Il fermento di questo territorio non si è ancora esaurito dunque. In Appennino centrale si sta scrivendo una nuova storia, che, ce lo auguriamo, ancora una volta farà La Storia della Conservazione della Natura.

Immagine di gruppo dal primo Festival delle Comunità a Misura d’Orso organizzato nel 2025 a Vastogirardi (IS)
Il bestiario della cultura umana è ricco di specie. Tutte le culture ne hanno eletto un proprio “re”. Proprio l’orso, al pari solo del leone, non ha rivali per la posizione che occupa e ha occupato nell’immaginazione umana, nella tradizione, nella cultura, nella storia dell’arte. Benché la natura dei riti, dei miti e delle rappresentazioni sia molto diversa da popolo a popolo, c’è un aspetto che sembra ricorrere in tutti i tempi e in tutte le culture: l’identificazione dell’orso con l’essere umano. La coesistenza dunque non è solo un modo di stare al mondo, ma è per l’uomo soprattutto fonte di ispirazione e aspirazione. È il riconoscimento dell’interdipendenza tra noi e tutti gli altri esseri viventi. È responsabilità collettiva verso noi stessi, gli altri e la natura.
Coesistere significa mettere le proprie capacità a disposizione della comunità per raggiungere un equilibrio tra i bisogni di tutti. Un equilibrio precario, sempre in evoluzione, che richiede un cambiamento. La strada è stata tracciata, quella della consapevolezza, dell’adattabilità e unità.

